Facebook: troppi “Mi piace”? Aumentano chili e debiti

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Troppi “Mi piace” su Facebook possono danneggiare l’autostima degli utenti. Non per difetto, chiaramente, ma per eccesso.

Un recente studio scientifico americano ha confermato che un aumento incondizionato dell’autostima può portare a un deficit di autocontrollo, vedendo aumentare di pari passo anche chili e debiti. La ricerca, messa a punto dall’Università di Pittsburgh e dalla Columbia Business School, è stata pubblicata sul Journal of Consumer Research. E su Facebook, prendendo molti like.

I ricercatori si sono concentrati su un migliaio di utenti di Facebook, studiandone abitudini e livello di autostima. Hanno scoperto che un maggiore utilizzo del social è associato a un più alto indice di massa corporea (o alle ossa grosse…), un aumento del “binge eating” (le scorpacciate compulsive) e a un uso disinvolto della carta di credito.

Lia Celi scrisse: “Narciso ha una pagina Facebook. C’è solo il tasto «mi piaccio»”.

Dalla saggezza della folla alla stupidità del gregge

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Si parla da molto della cosiddetta “saggezza della folla“, vale a dire, grosso modo, quel fenomeno per cui un gruppo di persone (nel cado dell’online, internauti) sarebbe più competente di un esperto, in qualsiasi settore (anche sulle previsioni).

Finché si tratta di indovinare il peso di un bue, come nell’esperimento di Francis Galton del 1907, OK. Ma le cose non funzionano online, secondo un recente studio scientifico raccontato da Giovanni Boccia Artieri su Apogeonline: “La produzione di conoscenza online risente in modo determinante delle dinamiche di influenza sociale che derivano dalla visibilità reciproca dei contenuti prodotti, influenza che passa da quei legami relazionali che si strutturano con evidenza nelle piattaforme di social networking e di blogging”. In pratica la condivisione di contenuti online attraverso una nostra rete relazionale annullerebbe l’effetto statistico della saggezza della folla. Sono le opinioni altrui a influenzarci, a renderci conformisti. Questo mina le basi della saggezza della folla che, come spiega James Surowiecki nel saggio La saggezza della folla, richiede diversità di opinione e indipendenza.

In pratica si passa dalla saggezza della folla alla stupidità del gregge, da non confondere con l’effetto gregge: in situazioni di confusione seguiamo chi ci sta davanti, soprattutto se pensiamo che sappia dove andare. Volete vedere dove vanno i pecoroni online? Seguite “Google Sheep View”.

La Wikipediocrazia (e il caso Aranzulla)

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Un recente studio del 2015, pubblicato su Future Internet, ha rivelato che Wikipedia, la più grande “enciclopedia online a contenuto aperto, collaborativa, multilingue e gratuita” (ho trovato questa definizione cercando Wikipedia su Wikipedia), ha ormai un’organizzazione burocratica al pari di qualsiasi azienda o ente pubblico. Altro che sapere libero e diffuso: si parla di Wikipediocrazia. Simon DeDeo, co-autore dello studio, aveva fatto la domanda giusta a Gizmodo: “Cosa succede quando una piccola fantasia libertaria a la Thomas Jefferson deve crescere?”

Se ne è parlato recentemente in occasione del caso “Salvatore Aranzulla” (uno che guadagna milioni scrivendo articoli su come estrarre un CD dal PC o cercare un sito con Google). La disputa – lunghissima, verbossima e piena di cavilli e controcavilli – è nata perché è stata votata dai wikipediani la chiusura della pagina di Aranzulla: la sua figura non risponderebbe ai criteri di “enciclopedicità” necessari per poter apparire su Wikipedia (il blog è seguitissimo, grazie a un efficacissimo uso della SEO, ma i contenuti non sarebbe riconosciuti come di qualità).

Strano che lo stesso Aranzulla non abbia scritto una guida su come non essere cacciato da Wikipedia.

I clienti Apple sono “devoti”: la Mela è una religione

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In un celebre documentario della BBC (“Secrets of the Superbrands“) un gruppo di neuroscienziati ha ipotizzato che il cervello dei clienti Apple, veri “devoti” di quel brand, venga stimolato appositamente dalle immagini della compagnia nello stesso modo in cui il cervello dei religiose viene stimolato dalle immagini sacre.

L’apertura dell’Apple Store in Covent Garden ha attirato orde di devoti, in fila già dalle notte prima. Il personale si caricava in una sorta di “frenesia evangelica”. Nello store ci sono immagini e architetture di tipo religioso incluse nella struttura: pavimento di pietra, abbondanza di archi, piccoli “altari” con i prodotti esposti.

Studiando il cervello del redattore di World of Apple, Alex Brooks, un fanatico Apple, una squadra di neuroscienziati ha usato la risonanza magnetica per osservare le reazioni alle immagini di prodotti Apple e di prodotti di altre aziende. I risultati? Lo scan ha rivelato differenze marcate nelle reazioni di Brook ai vari prodotti. Ma soprattutto ha rivelato che le “i prodotti Apple innescano bit identici del cervello di Brook rispetto a quelli innescati da immagini religiose nei fedeli”.

Thomas Hardy disse: “Lo scopo principale della religione non è portare un uomo in paradiso, ma il paradiso nel suo cuore”. A questo punto, nelle sue tasche.

Se online concludi una frase con un punto, sei finto.

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Molti pensano che la tecnologia stia penalizzando la scrittura. Quella manuale, forse, non certo la scrittura in generale: non facciamo altro che scrivere messaggi, SMS, WhatsApp, chat, post, status, blog e così via. La forma, forse, non sempre è la migliore (pensate alle “k” al posto di “ch”, per dirne una). E anche la punteggiatura assume tutto un altro significato.

Secondo un recente studio scientifico, finire una frase con un punto assume significati completamente nuovi. L’indagine, condotta da Celia Klin della Binghamton University, rivela che il punto finale fa sembrare la frase forzata, non sincera. Questo perché, soprattutto per messaggini e chat, la funzione del punto è assunta dall’INVIO.

Ben Crair, in un articolo su The New Republic, conferma e rincara la dose: mettere un punto alla fine di una frase in chat, su Skype o in una conversazione via SMS è a volte un simbolo di aggressività, sicuramente un sintomo di freddezza e distacco

(Nota per i lettori: questo post si conclude volutamente senza punto)

L’identikit dei personaggi dei romanzi

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Un sito creato dall’illustratore Brian Joseph Davis permette di vedere le fattezze dei personaggi dei romanzi. In pratica, usando un software usato dalla polizia per tracciare gli identikit, a partire dalle descrizioni desunte dalle pagine dei romanzi, si possono vedere i volti di Emma Bovary (in questa foto), Frankenstein, Lady Chatterley, Kurz, Dorian Grey e altri.

Giustamente per il ritratto del Dottor Jekyll e Mr Hide di Robert Louis Stevenson, l’illustratore non poteva che creare una GIF.

 

Le password sono come le mutande

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Il recente studio “Passwords are like underwear”, condotta da Kaspersky Lab in collaborazione con l’Institut Français D’opinion Publique, ha permesso di indagare sulle password. L’ha fatto in modo originale, paragonando parole chiave e mutande.

Ecco i risultati principali dell’indagine:

  • il 26% degli intervistati ha ammesso di aver condiviso le proprie mutande con familiari o amici (e di essere disposto a rifarlo); il 44% di questi ha ammesso di aver già confidato a qualcuno le proprie password;
  • il 71% degli intervistati ha dichiarato che, se avesse dovuto scegliere tra condividere con un conoscente le proprie password o le proprie mutande, avrebbe scelto le password;
  • l’87% degli intervistati cambia le mutande tutti i giorni, quasi il 50% degli europei cambia le proprie password meno di 2 volte l’anno (in alcuni casi mai);
  • il 73% degli intervistati ha più paura di scoprire che qualcuno ha avuto accesso alle proprie informazioni personali online e ai dettagli degli account non protetti da password che uscire di casa senza mutande.
  • il 22% degli europei crede di avere più password che mutande.

Qualcuno disse: è inutile che le chiamate mutande se poi non ve le cambiate mai.

Facebook: ecco gli status più fastidiosi

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Un recente studio, condotto sotto forma di sondaggio, ha rivelato quali sono gli status di Facebook che più danno sui nervi:

  • 42.65% Post per attirare l’attenzione
  • 41.40% Aggiornamenti noiosi
  • 40.15% Selfie
  • 30.20% Post mielosi sui figli
  • 28.55% Messaggi criptici rivolti solo ad alcuni utenti
  • 27.80% Foto di cibo
  • 26.70% Over-sharing/over-posting
  • 21.5% Foto o barzellette offensive
  • 15% Aggiornamenti sulle gravidanze
  • 14.5% Sollecitare la beneficenza
  • 13.05% Vantarsi delle vacanze
  • 8.75% Foto di animali

Lo stesso studio ha rivelato anche che, sui social, il 75% della gente mente. Del resto, come disse Baltasar Gracián y Morales: La menzogna è così fatta che per sostenersi ha bisogno di molte altre menzogne”.

Facebook: anche se ti cancelli, poi torni indietro

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Non possiamo fare a meno di Facebbok. Anche chi si cancella non restiste e, prima o poi, torna indietro. Un recente studio della Cornell University, che ha monitorato l’umore di alcuni volontari che si erano cancellati dal social network, rivela che ci sono quattro motivi per cui non riusciamo a starne alla larga:

  1. la dipendenza (esiste la sindrome F.A.D.: Facebook Addiction Disorder);
  2. il controllo (monitorare che cosa fanno gli altri);
  3. l’umore (chi si sente di buonumore può fare a meno dei social, chi si sente triste o annoiato o apatico ci torna maggiormente);
  4. la mancanza di alternative (se non si usano altri social, si torna su Facebook).

Qualcuno disse: Ho una vita fuori da Facebook, ma non ricordo la password”.

Chi usa le emoticon fa più sesso

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Chi usa le emoticon per comunicare con gli altri fa più sesso e, in generale, ha una vita affettiva più soddisfacente. Lo rileva un sondaggio di Match.com (sito di appuntamenti online), ripreso dal Time, che ha coinvolto un campione di 5675 single americani.
Ecco, nel dettaglio, i risultati: il 54% dei single che usano più emoticon ha fatto sesso nel 2014; chi non le usa ha fatto sesso nel 31% dei casi. Il sondaggio ha rilevato inoltre che le donne che inviano emoticon con il bacio riescano a raggiungere con più facilità l’orgasmo.

Come disse un tale, sex1 sex2 sex3 sex4

PS: per chi non capisse l’emojichese, esiste Wikemoji, un dizionario online.